A che punto siamo con la sostenibilità, davvero? Se a livello di comunicazione, la sensibilizzazione sulle tematiche ambientali applicate all'industria tessile è ormai costante, e definisce i programmi del prossimo futuro di maison e conglomerati del lusso, tutti impegnati a ridurre a zero il loro impatto sulla natura, quanto i consumatori, nel mondo, durante l'acquisto, sono guidati dalle imprescindibili regole auree dello shopping etico? A chiederselo è stato N.Peal, brand produttore di cashmere (materiale ipoallergenico, biodegradabile, rinnovabile, che nel caso di questo marchio è prodotto dalle comunità locali, secondo i metodi tradizionali, nella parte interna della Mongolia). Interessato da vicino alla questione, N.Peal ha quindi studiato i dati delle ricerche online, valutando somiglianze e differenze tra 64 paesi. Il risultato? Per quanto riguarda l'Italia, il piazzamento è di tutto rispetto: lo Stivale è al quinto posto nella classifica europea, per numero di ricerche effettuate online e guidate da parole come "ethical" o "sustainable" (740 al mese). Un piazzamento che la vede superare Francia (690), Spagna ( 580) e persino le sostenibilissime Svezia (530) e Danimarca (con 590 ricerche online, e una delle fashion week più attente alle regole basiche della sostenibilità, da rispettare obbligatoriamente se si vuole essere inseriti nel loro calendario). A livello macro, e quindi continentale, è infatti la vecchia Europa a guadagnarsi il podio, con il risultato ragguardevole di oltre 74 mila ricerche mensili online, seguita con un certo distacco dal Nord America (42.430) e Asia (17.600). Andando nello specifico, quali sono però le parole "magiche" digitate quando si va alla ricerca di acquisti rispettosi dell'ambiente? Oltre a "sustainable" (47.250 ricerche mensili attraverso questa keyword, che racchiude anche "sustainable fashion" e"sustainable clothing") c'è "ethical" (al secondo posto con 17.480 ricerche), aggettivo che evidenzia un'attenzione non solo all'impatto ambientale, ma anche a quello umano, con uno sguardo ai diritti dei lavoratori e alla loro tutela. In terza posizione (8.110 ricerche) c'è "second hand clothing", a ribadire l'interesse verso una pratica, quella dell'acquisto di capi pre-loved, che promuove la circolarità e di conseguenza, la sostenibilità.

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Ad aiutare i consumatori a muoversi però nell'intricato mondo degli acquisti sostenibili – un mercato ricco di possibilità, ma potenzialmente anche di brand che vogliono capitalizzare sulla tendenza, pur non avendo i requisiti per accedere al reame dei marchi sostenibili (tramite il greenwashing) – sono nate negli ultimi anni una serie di app che funzionano da bussole: è il caso di Good on You, approvata persino dall'attrice Emma Watson, da tempo nota per il suo impegno a favore dell'ambiente, tanto da essere stata nominata lo scorso anno presidente del comitato per la sostenibilità all'interno del consiglio di amministrazione di Kering. Good on you, in buona sostanza, è una directory, nata in Australia, che dà i voti ai brand, perseguendo la missione delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile: i marchi – migliaia, quelli catalogati – sono così "giudicati" sulla base di diversi indicatori. Fondamentali sono il rispetto dei lavoratori e la trasparenza della gestione della catena di distribuzione (equità di genere, stipendi equi rispetto al costo della vita nei singoli paesi, sicurezza dei lavoratori e libertà di associazione), passando per il rispetto del pianeta (emissioni di gas serra, trattamento delle acque reflue, inquinamento da micro-fibre, utilizzo di agenti chimici e il loro smaltimento) e quello degli animali (utilizzo di pelliccia, di piume di animali esotici e come viene trattata la pelle). Per adempiere al compito, Good on You utilizza i dati forniti dagli stessi brand o dai conglomerati che li possiedono, indici forniti da parti terze affidabili (come il Fashion Transparency Index e i progetti legati al CDP Climate Change and Water Security projects) così come i dati forniti da enti esterni che sono incaricati di certificare l'impegno dei brand in specifici settori (come il Fair Trade, Cradle to Cradle, OEKO-TEX STeP e il Global Organic Textile Standard). Di conseguenza, i consumatori interessati a sapere se un brand è davvero sostenibile come sostiene, possono semplicemente digitare il nome del brand nella striscia di ricerca, e attendere speranzosi i risultati. La responsabilità di un'economia circolare è però non solo dei produttori, ma anche degli utenti e di come utilizzano i capi che hanno già nell'armadio: ad aiutare nella gestione del proprio personale inventario, ci sono app come Stylebook (al costo di 3,99 dollari). Caricando le foto dei propri vestiti e accessori, l'app offre soluzioni per abbinarle alle quali magari non si era pensato prima, riuscendo a sfruttare al meglio ciò che si possiede già, senza comprare nulla di nuovo.

Sulla stessa linea si muove 30 wears, che incoraggia i consumatori ad indossare i propri capi almeno 30 volte prima di liberarsene: caricando i propri vestiti e taggandoli per ogni utilizzo, l'obiettivo è allungare la vita del proprio guardaroba, evitando la filosofia suadente e velenosa del fast-fashion, che ci convince inconsciamente a considerare un pezzo vecchio dopo già il terzo uso. Infine, Save Your Wardrobe si propone lo stesso obiettivo, fornendo ai propri utenti le migliori informazioni su come trovare un servizio di lavanderia a secco o di riparazioni – siamo in fondo tutti colpevoli di ignorare il cartellino delle istruzioni, tagliandolo quando è all'interno dei capi e dimenticandoci serenamente le istruzioni sul lavaggio o il trattamento. Di conseguenza, i capi dureranno più a lungo, evitandoci di dover comprare nuova merce. La strada per la sostenibilità è costellata di buone intenzioni, e i dati dicono che gli acquirenti sono pronti ad imboccarla, e che oggi, siamo anche provvisti degli strumenti che ci aiutino ad orientarci tra falsi miti e ingannevoli promesse. Il futuro, forse, è più vicino di quanto pensiamo.