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Perché le sfilate di Milano sono nuov(issim)e

Moda italiana ripetitiva, sostiene un collega? No. La creatività reazionaria è ciò che rende ipercontemporanea la fashion week milanese.

Di Antonio Mancinelli
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Siccome vanno tanto di moda i cobranding tra griffe diverse - grazie a Vetements e Gosha Rubchinskiy - scrivo queste righe in risposta all’articolo dello stimatissimo amico e collega Angelo Flaccavento (scrive anche per Marie Claire #LIKES!). Su Business of Fashion sostiene che la fashion week della moda milanese è impostata sul “repeat” e, di fatto, non si è visto nulla di nuovo, se non alcuni nomi: Lucio Vanotti, Arthur Arbesser, Salvatore Piccione e Alessandro De Benedetti per Mila Schön. Ma non è già questa una novità? Sì, è vero: sono relegati all’ultimo giorno del calendario e non possono più contare sull'ala protettrice di Giorgio Armani che prima era l’ultimo nome a chiudere la kermesse modaiola, costringendo perciò i giornalisti a rimanere in città.

Eppure, secondo la mia modestissima opinione, queste sfilate sono state creative e rivoluzionarie. Perché reazionarie.

Mi spiego con degli esempi. 1) Accanto a me, alla sfilata Gucci, c’era una signora in hijab che le lasciava coperti solo gli occhi. 2) Il 31enne J.W. Anderson, nell’intervista sul Marie Claire #LIKES, alla domanda: «Cosa significa “innovazione”?», mi ha risposto: «Craftmanship!», ovvero: «Artigianato!». 3) Fausto Puglisi, appena 40enne, nei Facebook Live che abbiamo fatto durante la fashion week, ha detto: «Per me una firma esiste solo se vende, altrimenti non ha senso». 4) Il film che accompagnava la sfilate di Prada, un’opera di David O. Russell visibile sul sito del brand da fine ottobre, ha un titolo che è tutto un programma: Past Forward. Il cambio di una consonante apre mondi.

Mentre scrivo, Vogue Usa dichiara guerra a fashion blogger e influencer. «Finalmente!», dirà qualcuno. Ma sono personaggi che numerosissimi marchi e anche testate giornalistiche cartacee hanno contribuito a far crescere e di cui si sono serviti. Trump sta mettendo in difficoltà Hillary Clinton nel gradimento del popolo Usa: vuol costruire un muro che separi il paese dal Messico, cosa non fisicamente realizzabile, ma di portata mediatica. E gli italiani che lavorano in Svizzera stanno rischiando discriminazioni, se non razziali, sicuramente economiche. E la crisi non vuole smettere.

Che ci piaccia o no, questo è lo scenario.

Le sfilate che abbiamo visto, per restare sul piano che ci compete (ovvero pizzi, frizzi e falpalà) sono state geniali. Meglio: sono state prove di un genio ricapitolativo che tutto sa, tutto conosce e poco propone. Antologiche, compilative, fors'anche enciclopediche: del resto il tagliente Alexander Fury sul New York Times ha scritto che a salvarci sarà la nostra capacità di trasmutare il passato in futuro.

C’è un punto da chiarire: è sempre stato così. Delle quattro capitali mondiali della moda, New York è sinonimo di sportswear, Londra di estro e Parigi di glamour, mentre Milano sta per abbigliamento. Lontani sono i giorni in cui Gianni, Giorgio, Gianfranco, Krizia e Valentino ci stupivano ogni sei mesi. Siamo amati per il prodotto. Però, però, però. A me queste sfilate sono sembrate dirompenti nell'essere allineate a una società conservatrice, pronta a scandalizzarsi per due sciocchine seminude su un red carpet ma a non fare un plissé se l'Isis griffa un'altra strage. Se qualcuno di voi dovesse chiedermi di condensare in un capo - uno solo - quale capo "farà" estate 2017, sarei costretto a rispondere: «Il cappotto». Non si è visto un costume da bagno, una lunghezza azzardata, un lampo di pelle che non fossero le spalle (e poco pure quelle).

Certo: la temperatura culturale e politica di un periodo storico non si misura dalla quantità di epidermide esposta. Ma è sicuro che, anche in casi di estrema capacità, come da Alessandro Michele per Gucci, il corpo femminile sia sigillato da abiti che tutto tolgono all’immaginazione. Che l'anatomia femminile venga sottratta agli occhi di coloro che non vogliamo ci guardino, è cosa buona e giusta. Specialmente se consacrata dagli stilisti più hot: sembrano passati millenni dalle veline che si scosciavano in ogni luogo e in ogni momento dove fossero radunate più di tre persone e un fotografo.

Ma allora: in cosa consiste, questo insolito rumore di fondo che perplime? La moda rispecchia sempre le mutazioni sociali. Anche quando sembra essere messa in modalità "repeat", caro Angelo. E la società in cui viviamo, a dispetto dei network, prende la parola in un contesto culturale molto diverso da quello a cui eravamo abituati. Quello che sembra un tributo alla tradizione è un inchino nuovo di zecca rivolto ai consumatori sparsi in tutto il mondo. È una sorta di autodenuncia di un sistema che forse si era spinto un po’ troppo in là nella mercificazione delle anatomie. Ora - più realista del re - le vela, le cela, le offusca. Anche sotto le spalle giganti proposte dalle sfilate che, secondo il nostro modesto parere, sono state le più belle di questo giro: Marni e Jil Sander. A riportare la silhouette allungata dalle spalline forzute è stato sicuramente Demna Gvasalia per Vetements, ma di certo non sono un suo brevetto: sono state utilizzate in periodi di crisi psicologica ed economica. Gli anni, 40, gli anni 80, momenti in cui la società virava verso nuove modalità. Come oggi.

Superato e oltrepassato il momento del genderless, si torna a un abbigliamento che si deve vendere a consumatori dalle differenti culture e formazioni di vita. Il web non ci ha unito, anzi. Possiamo farci shopping alle 4 del mattino, ma basta un "logout" per ritornare più soli di prima. Attenzione, Angelo: non sto dicendo che le sfilate siano state belle (alcune sì, però). Dico che, per uno come me, sono state antropologicamente interessanti.

Interessanti anche nel tentativo di riunire una contraddizione insanabile: il nuovo che si traveste da vecchio. Invece è sanabilissima, e queste collezioni lo hanno dimostrato. Sfilando davanti a un pubblico globale dove “borghese” è tornato a essere un aggettivo molto positivo. Il quadro che ne deriva è quello di un fashion-system che, al di là delle polemiche sul “vedi subito, compra subito”, è moralmente ipocrita. Ma la moda non deve essere etica o intellettualmente onesta: è un'industria.

Fa quello che deve fare: non insegna, emoziona.

E poi chissà, saranno forse le emozioni dello spettatore a fargli imparare qualcosa (se c'è davvero qualcosa da imparare). Viene in mente il dialogo tra i due amanti gay di Mine vaganti di Ferzan Ozpetek: «Siamo nel 2010». «Appunto, non siamo più nel 2000».

Ecco, siamo nel 2016. Non siamo più nel 2006.

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Prada Primavera Estate 2017

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Prada Primavera Estate 2017

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Jil Sander Primavera Estate 2017

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Lucio Vanotti Primavera Estate 2017

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Piccione.Piccione Primavera Estate 2017

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DSquared2 Primavera Estate 2017

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Gucci Primavera Estate 2017

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Fausto Puglisi Primavera Estate 2017

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Jil Sander Primavera Estate 2017

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Gucci Primavera Estate 2017

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Bottega Veneta Primavera Estate 2017

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Marni Primavera Estate 2017

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Mila Schon Primavera Estate 2017

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Jil Sander Primavera Estate 2017

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Prada Primavera Estate 2017

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Arthur Arbesser Primavera Estate 2017

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Lucio Vanotti Primavera Estate 2017

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Marni Primavera Estate 2017

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Giorgio Armani Primavera Estate 2017

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Bottega Veneta Primavera Estate 2017

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